Sunday, October 25, 2020

Tessellate - Capitolo 22

 

22.
YOU HIDE AWAY TO THE OTHER SIDE OF THE UNIVERSE

 

 

Nerja, Spagna.

Maggio.

 

Vivien aprì la porta della sua villa in Andalusia e, senza neanche preoccuparsi di accendere la luce, lasciò cadere i bagagli all’ingresso e si trascinò al piano inferiore, nella sua stanza, dove si lasciò cadere sul letto, completamente esausta. Nonostante avesse dormito per tutto il volo da Los Angeles a Madrid, e aver sonnecchiato durante quello dalla capitale spagnola a Malaga, era ancora stanca. I cinquanta minuti di viaggio in macchina dall’aeroporto a Nerja erano stati estremamente difficili, e Vivien aveva dovuto sparare musica metal a palla per non cadere addormentata, e aveva comunque fatto molta fatica a tenere gli occhi aperti.
Non sapeva perché era così stanca, visto che, in fondo, non aveva fatto altro se non dormire e viaggiare, ma forse la sua era una stanchezza emotiva, forse il dormire l’aiutava a non vivere in quella nuova realtà in cui si era volontariamente lasciata alle spalle tutto ciò che l’aveva mai resa felice e tutto ciò che avrebbe potuto mai renderla felice. Fortunatamente il suo subconscio sembrava remare con lei e non contro di lei, e non aveva avuto sogni indesiderati, che le potevano ricordare anche da non cosciente, quello che era successo, quello che aveva perso, e quello che l’aspettava. Forse era per quel motivo che continuava a dormire - era come un luogo sicuro dove potersi proteggere.
La prima settimana nella sua villa di Nerja passò così, alternando al sonno profondo brevi momenti di veglia in cui si cibava - una volta al giorno - del poco cibo in scatola che i suoi genitori avevano lasciato nella dispensa quando erano stati in vacanza a Pasqua. Si alzava dal letto solo per andare in bagno e mangiare, e per sette giorni consecutivi non vide la luce del sole, se non quei flebilissimi raggi che filtravano dalle persiane chiuse.
In quei brevi momenti in cui era sveglia veniva assalita da una tristezza infinita, e tutto ciò che riusciva a fare era piangere - proprio lei, che si era sempre vantata di versare raramente delle lacrime. Si sentiva completamente prosciugata, e non solo per la quantità di liquidi che avevano lasciato il suo corpo uscendo dai suoi occhi. Sembrava che ogni stimolo vitale l’avesse abbandonata il momento che si era chiusa alle spalle la porta della sua casa a Los Angeles - no, pensò, non doveva considerarla casa sua, perché non lo era più. Era casa di Dianna, di Elise, di Tory, ma non sua. Non vi avrebbe mai più fatto ritorno, per cui era inutile dare all’abitazione quell’appellativo, fosse anche solo nei suoi pensieri.
Ci furono dei momenti in cui fu sul punto di chiamare un ambulanza, perché il dolore che provava al petto era così intenso da farle credere di stare avendo un infarto. Ogni tanto si chiedeva se, forse, non sarebbe in realtà stata una consolazione: addormentarsi e non risvegliarsi, non dover vivere con le conseguenze della sua decisione, semplicemente cessare di esistere. Si ricordò quel passaggio de La signora Dalloway che amava tanto e che parlava proprio di quello: “ma che importava allora, ella si domandava procedendo verso Bond Street, che importava che ella dovesse, ineluttabilmente e completamente, cessare di vivere? Tanto fervore di vita sarebbe continuato senza di lei; se ne risentiva forse? O non era piuttosto consolante la certezza che la morte poneva fine a tutto”. Era esattamente così che si sentiva. Che importava?

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